diNOSauri martedì 04 maggio 2021 ore 14:10
Dostoevskij e Gogol' nella folle Pietroburgo
Dostoevskij si lega a Gogol' per un’opera giovanile che riprende ambientazione, personaggi e temi trattati dal maestro nei Racconti di Pietroburgo
FIRENZE — “Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol'”. Basterebbe questa celebre frase per evidenziare l’importanza che l’autore de Le anime morte ebbe nella letteratura russa del secondo Ottocento e non solo. Lo scrittore che forse più di tutti ha tratto ispirazione da Nikolaj Vasil'evič Gogol' (Velyki Soročynci-Ucraina, 19/3/1809 - Mosca, 4/3/1852) è Fëdor Dostoevskij, autore di quella espressione, che, in particolare nei suoi primi romanzi, non si perita a citare estratti dalle opere teatrali di Gogol', o a prendere come esempi personaggi dei suoi racconti. Ci piace ricordarlo a 200 anni dalla nascita (Mosca, 11/11/1821 – San Pietroburgo, 9/2/1881).
Oltre alle citazioni, Dostoevskij si lega a Gogol' per un’opera giovanile, Il sosia, romanzo breve che riprende ambientazione, personaggi e temi già trattati dal “maestro” nei Racconti di Pietroburgo, in particolare ne Le memorie di un pazzo.
Nel suo racconto Gogol' descrive il repentino percorso nella follia di Akakij Akakievič: sin dalle prime pagine emerge chiaramente l’instabilità mentale del personaggio che, ascoltando un “discorso” fra due cagnette, si convince dell’esistenza di una sorta di “carteggio canino” e cerca di impadronirsene per conquistare la figlia del direttore; il percorso folle culmina con il trasferimento al manicomio del protagonista che, scrivendo la data: “43 aprile dell’anno 2000”, annota: “La Spagna ha un re. È stato trovato. Quel re sono io”.
Akakij Akakievič è un semplice impiegato che vive in una Pietroburgo internazionale, dinamica, piena di vita, che lo stesso Gogol' in Le memorie pietroburghesi descriveva così: “Pietroburgo è tutta in movimento, dagli scantinati agli abbaini, non si ferma mai: dalla mezzanotte comincia a infornare i panini alla francese che il giorno dopo i tedeschi si mangeranno con avidità e per tutta la notte le si illumina ora un occhio, ora l’altro”. Akakij Akakievič, comunque, sembra non accorgersi di tutto ciò, bloccato com’è dall’estenuante uniformità e ripetitività del suo impiego, tema che pervade i Racconti e che sfocia poi nella follia.
L’assurdità e l’ironia del racconto, a una prima lettura suscitano, sotto un primo impulso al riso, una forma di denuncia verso l’intera società pietroburghese, così lontana dalla campagna ucraina dove Gogol' crebbe e che, secondo Andrej Belyj, “Ha fatto a pezzi Gogol'; l’autore si aggrappa all’ironia come a un mezzo di autodifesa, per cui si può dire che in lui non è il riso a dominare, ma piuttosto il terrore”.
Anche Jakov Petrovič Goljadkin, protagonista di Il sosia, vive a Pietroburgo; anche lui è innamorato della figlia “irraggiungibile” del suo superiore; anche lui, in pochi giorni, si ritrova su una vettura diretta verso un manicomio; tuttavia, il protagonista e il percorso che lo porta alla follia sono molto diversi da quelli che troviamo nel romanzo di Gogol'.
Goljadkin inizialmente non appare essere un pazzo, o meglio il lettore viene a conoscenza del suo stato solamente alla fine, dopo essersi immedesimato con il personaggio per tutto il romanzo. Viene presentato con la qualifica di consigliere titolare, qualifica che ricopre con insicurezza e che è uno dei gradi più bassi della gerarchia burocratica zarista; la sua semplicità d’animo cozza contro l’indifferenza dei colleghi e, in particolare, con quella del nuovo impiegato, in tutto e per tutto uguale al protagonista, ma di indole perfida e aggressiva, tanto da finire con l’umiliare il “nostro eroe”, come Dostoevskij lo definisce.
Come Le memorie di un pazzo, anche Il sosia si scaglia contro una Pietroburgo che è descritta come fortemente gerarchizzata ma, a differenza di Gogol', che l’accetta quasi sorridendo, Dostoevskij la attacca con un romanzo che è angosciante e opprimente, così com’è la vita di Akakij Akakievič e di Jakov Petrovič, che terminano i propri giorni nella follia, unica via di fuga per allontanarsi da un ordine sociale che annulla i rapporti umani, un ordine in cui, come nella Prospettiva Nevskij, “Tutto è un inganno, tutto è un sogno, nulla è quello che sembra”.
Questa è la Pietroburgo di Gogol' e di Dostoevskij, la capitale del cosmopolitismo, della finzione e della follia. Confrontandola con l’idilliaca campagna dove Ivan Petrovič aveva trascorso la giovinezza, fa dire a quel personaggio, protagonista di Umiliati e Offesi: “Allora, nel cielo, c’era un sole così luminoso, così diverso da quello pietroburghese! E i nostri piccoli cuori battevano, pieni di allegria! A quel tempo, tutt’intorno, c’erano campi e boschi e non, come oggi, cumuli di pietre morte”.
Matteo Cirillo,
3C Liceo Classico Michelangiolo, Firenze
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